L’attimo sfuggente


Se si rinuncia al brivido della fedeltà

Se si volesse rintracciare la spia di un generico, ma sempre più diffuso, malessere giovanile, si dovrebbe concentrare la ricerca su quell’intermittente vuoto esistenziale che sempre più scandisce la vita delle nuove generazioni. Cioè quella sensazione di avere vissuto intensamente “tutto” la sera prima, trovandosi poi la mattina seguente con un enorme vulnus interiore. Somiglia al brivido e all’emozione di una pesca riuscita, ma per poi scoprire di avere tra le mani una rete lacerata.
È la malattia di questo tempo, tutto concentrato sulla soddisfazione del momento, in preda a un attimo fuggente che però quasi mai si tramuta nella solida prospettiva di un progetto futuro. Sarebbe dunque più giusto chiamarlo attimo sfuggente, perché le vere opportunità non vengono neppure riconosciute e il giovane, cresciuto a dosi di bulimica saturazione dei propri desideri (che spesso altro non sono se non impulsi dell’istinto), non sapendo riconoscere l’occasione giusta, cerca di coglierle tutte.
Occorre invece tempo per fare maturare le implicazioni di una scelta, che solo nella durata diventa vera novità. Lo sanno bene gli artisti che, da una fugace intuizione, gettano le fondamenta di opere dal respiro assoluto. Ma il seme giusto non potrà mai portare frutto in una cultura dove il carpe diem è passato da ispirazione a prassi, se non addirittura metodo, perché si è bruciata, per ottundimento da assuefazione, la possibilità che quel seme inizi a germogliare.
Ecco allora che, a rendere ancora più opachi e indecifrabili i desideri di una generazione già fragile e disorientata, si finisce per assecondare questa tendenza con il progetto di omologare l’ultima delle scelte non precarie, cioè il matrimonio, allo spirito del tempo. Così le proposte di ridurre i tempi legali per il divorzio non sono tanto una soluzione burocratica per alleviare le fatiche e gli affanni della separazione a una generazione che di vere fatiche ne ha conosciute ben poche. Si tratta piuttosto dello sbriciolamento — e il mandante è l’ipertrofico ego contemporaneo — dell’ultimo tabù posto a vigilanza di una società psicologicamente gracile e volubile, assuefatta a sconfessare sempre le proprie scelte e a relativizzare comunque le proprie responsabilità.
Il matrimonio, infatti, è anche un cammino di educazione emotiva e sentimentale della persona, perché non tutto in questa vita ha il sapore, il gusto e la durata di una mentina. Le cose non durano per una loro proprietà intrinseca, ma durano perché sono nate, cresciute e maturate con noi: diventano parte della vita stessa, tanto che poi ucciderle è un po’ come uccidersi. Perché esiste anche il brivido della fedeltà a vita — lo sanno bene i tifosi di una squadra di calcio — e certo non solo quello del ripensamento.
Questa nuova generazione invece è sempre a caccia di attimi fuggenti perché nessuno le ha insegnato che il tempo perso è perduto per sempre, che non esistono gesti senza conseguenze, perché le conseguenze dei propri atti sono infinite. Ecco allora che dire di sì a un legame che non preveda facili scappatoie significa non soltanto coltivare la speranza di una felicità duratura, ma ancora di più mandare un segnale dal forte impatto pedagogico a una generazione mai avvertita delle conseguenze dei propri atti estemporanei, perché sempre emendabili, sempre riscrivibili. Così chi plaude al cosiddetto divorzio breve è, prima ancora che un conformista, un debole educatore.

  L'Osservatore Romano Cristian Martini Grimaldi 30/07/2012

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